Il tigre: il film con Gassman che non graffia, ma fa riflettere


Film diretto da Dini Risi e vincitore di due David di Donatello nel 1967 (miglior attore protagonista a Vittorio Gassman e miglior produttore a Mario Cecchi Gori), "Il tigre" è una commedia sentimentale che si sviluppa da un soggetto non particolarmente originale: è la storia infatti di un industriale rampante, 45enne, che prende una cotta per una 20enne, ex fiamma di uno dei suoi figli. L'uomo trascurerà famiglia e lavoro, inseguendo una giovinezza che sta invece passando inesorabilmente, e si renderà conto di non essere "una tigre", di non poter avere, per ovvie ragioni, quel fervore giovanile e quello spirito che permette ai ragazzi di cambiare radicalmente la propria vita nel giro di 24 ore, per poi stravolgerla nuovamente dopo qualche settimana, inseguendo una maturità ancora lontana e soprattutto la piena realizzazione di sé.


Vincenzini al telefono, alle sue spalle l'ombra (il ritratto) della moglie

Il protagonista, Francesco Vincenzini (Vittorio Gassman) è un abile direttore di industria, marito di Esperia e padre di tre figli. E' un uomo di successo, ricco e affermato. Perché mettere tutto in discussione? E' nella natura umana non accontentarsi, anche quando si ha magari non tutto, ma tanto. Così Vincenzini insegue l'amore fugace di Caterina (Ann Margaret), la ventenne ex fidanzata di uno dei figli dell'industriale, salvato da un tentativo di suicidio motivato dalla forte delusione d'amore provata. Vincenzini poteva prevedere le conseguenze di quella passione, di quanto siano passeggere le infatuazioni della ragazza (sul cui conto si sprecano voci sulla sua leggerezza sentimentale), eppure si getta tra le braccia di Caterina, dopo un tentennamento iniziale. Lei, studentessa all'istituto d'arte, d'altro canto disdegna i coetanei inseguendo l'amore di uomini più grandi, anche se questo atteggiamento psicologico della ragazza non viene approfondito dalla sceneggiatura di Age e Scarpelli

I due protagonisti a confronto

Vincenzini è travolto dalla passione, mentre la moglie Esperia, scoperto casualmente il tradimento, non reagisce. Un'amica - abbandonata dal marito - le consiglia di non fare la prima mossa, perché altrimenti il marito coglierebbe la palla al balzo per rompere definitivamente il matrimonio. Ella finisce così per subire passivamente il consistente tradimento, mentre il marito ondeggia tra sensazioni contrastanti, deciso a mettere fine al matrimonio, ma anche alla relazione clandestina, eppure la ragione si fa sempre travolgere dall'istinto.

Tuttavia, alla fine del film, Vincenzini scende dal treno diretto a Parigi che rappresenta la nuova vita (benché con poche certezze) per ricongiungersi alla famiglia. Il pentimento sembra sincero e non per scelta di conservare lo status quo, a fronte dei rischi portati dalla scelta di salire su quel treno: metaforicamente il treno rappresenta le opportunità che ci offre la vita. Sta a noi scegliere se salirci, consapevoli di non sapere su quali treni viaggi la felicità, citando Lucio Dalla. Rimane però l'imbarazzo per un uomo che si rende patetico, basti citare il dialogo che ha con la madre di Caterina, e  che stava mandando a rotoli la sua vita per un capriccio, per l'incapacità di accettare il tempo che passa inesorabile e di essere nonno (la figlia femmina infatti partorisce un bambino). E' impietoso, comunque, anche il ritratto della donna della ricca borghesia. Esperia, la moglie di Vincenzini, è forse preoccupata più dalla perdita dello status quo, dalla sua condizione di donna tradita dal marito con una donna più giovane, e non per il fatto del tradimento in sé. Il finale rappresenta una sorta di armistizio. Ma chi ci garantisce che Francesco metta la testa a posto? 


Caterina e Tazio

Il film di Risi, a metà tra la commedia pungente e il film sentimentale, molto anni '60 per ciò che concerne la fotografia (e le capigliature della Margaret), ma anni '70 per alcune gustose trovate (le opere d'arte in casa di Caterina, i flashback e le scene immaginate dal protagonista gustosi siparietti con l'uso del bianco e nero), lascia ovviamente l'amaro in bocca. Vincenzini non può essere una tigre per ragioni di età (e non è certo un difetto essere uomini più riflessivi e metodici), ma certamente si dimostra pavido, meschino come il borghese cantato da Gaber in "io se fossi Dio" (sogna addirittura che la moglie possa dare la sua approvazione alla relazione extraconiugale!), ondivago tra maturità e immaturità. Un uomo fragile, interpretato dall'istrionico Gassman con il consueto vigore. Meritevole di nota, tra le spalle, Fiorenzo Fiorentini, che interpreta Tazio. Compagno d'armi di Vincenzini, costretto a rifarsi una vita dopo - guarda caso - una sbandata amorosa, Tazio chiede a Vincenzini di dargli una mano e ottiene l'incarico di usciere. Sarà proprio Tazio (risollevatosi economicamente) a sostenerlo nel punto più basso della sua parabola discendente.  Ma il gesto è frutto di amicizia e sincera gratitudine, o solamente una ricompensa per quanto avuto? Di sicuro "il tigre" è un film che non graffia a sufficienza, ma fa riflettere molto, sulle dinamiche umane, non solo coniugali. 

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