di Bonigol
Il Secondo lungometraggio di Maura Delpero, "Vermiglio", è un’opera che si distingue per la sua delicatezza e profondità, capace di intrecciare le storie personali con quella collettiva, in un momento di crisi e grande trasformazione dell'Italia.
Siamo, infatti, nel 1944 e a Vermiglio, un piccolo paesino della Val di Sole del Trentino, fa ritorno Attilio, soldato ferito al fronte e aiutato dal commilitone siciliano Pietro a risalire fino a casa. La Guerra volge al termine e il paese chiacchiera sul forestiero, accogliendo i due reduci con un misto di freddezza, sospetto e affetto. Lucia, la giovane figlia maggiore dell'insegnante del paese, resta affascinata da Pietro e se ne innamora, sebbene nessuno (nemmeno Attilio) lo conosca davvero. Attorno a questa vicenda, ruotano teneramente quelle dei fratelli e delle sorelle di Lucia, che affrontano la loro crescita e l'inflessibilità del padre, ognuno in maniera diversa.
Innanzitutto una premessa. Caratteristica che ignoravo fino all'inizio della proiezione del film: Vermiglio è totalmente recitato nel dialetto della zona e del tempo in cui viene contestualizzato, per cui a salvarvi saranno i sottotitoli (se non avete voglia o modo di leggere non v'è soluzione).
Partiamo dai numerosi pregi.
L'impatto visivo di questo film è ipnotico e "acquerellato", quasi una cartolina in movimento. Qualcuno ne paragona la poetica intima, quasi confidenziale, a quella delle opere di Ermanno Olmi.
Ci si sente parte di una quotidianità che è quasi un lungo rituale che va dalla mungitura, i compiti prestabiliti, le tavolate devote a Dio e al cibo nel piatto, fino al "tetris" dei tanti corpi fraterni incastrati nei pochi letti disponibili, prima che il sonno metta in stand-by ambizioni, curiosità, condivisioni.
La fotografia del film è, quindi, elemento di grande rilievo. Le immagini, spesso rarefatte e spettrali, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa tra realtà e sogno, rispecchiando la complessità dei sentimenti e delle situazioni vissute dai personaggi.
La regista ci conduce in quel microcosmo sociale che era la famiglia "montanara" degli anni quaranta, non rinunciando a sollevare importanti questioni di costume individuabili negli schemi patriarcali, nelle potenti figure ecclesiastiche, nella voglia di emergere di chi non poteva decidere della propria vita.
Vermiglio è un film che riesce a catturare l’essenza di un’epoca e di una comunità attraverso suoni, silenzi e immagini e in cambio restituisce emozioni veraci.
Siccome ne sto tessendo troppe lodi potreste pensare a un film privo di difetti. In realtà ho trovato la colonna sonora eccessivamente "sacrale". Forse si volevano omaggiare "religiosamente" le montagne e la vita semplice e imperfetta di una volta, chissà. C'è anche da dire che il film scivola via al piccolo trotto, senza impennate, senza partire mai al galoppo. Lo scorrere del tempo è scandito dalle stagioni e dai drastici cambiamenti dello scenario dolomitico. Neve, Sole e il calendario che avanza in punta di piedi.
La documentarizzazione fagocita il contenuto e predomina. La vicenda narrata, del resto, è una piccola storia contenuta in un disegno molto più grande.
Nulla di nuovo, se si pensa che sono trascorsi ormai ottant'anni dal termine della Guerra.
Il film, già Leone d'argento al Festival di Venezia, è stato scelto per rappresentare l'Italia agli Oscar del 2025 (chissà se arriverà tra i finalisti) e si mantiene la migliore rivelazione nostrana al botteghino. È sicuramente da vedere poiché questo tipo di narrazioni non è possibile descriverle a parole in maniera calzante. Esprimendone un giudizio positivo vi rimando dunque allo schermo che, come sempre, resta il miglior divulgatore in fatto di cinema.
Commenti
Posta un commento