Nel 2006 Glen Morgan diresse "Black Christmas, Un Natale rosso sangue", remake di un classico del genere slasher risalente al 1974. Morgan è (purtroppo) il regista della saga di Final Destination: per cui il nuovo Black Christmas è semplicemente una sequenza di morti splatter, con un filo conduttore: gli occhi estirpati.
Lo splatter è sempre un'arma a doppio taglio: talvolta portata principale che non appesantisce (ricordiamo il primo Peter Jackson), altre volte espediente per dare consistenza a idee molto scarne.
Il remake di Black Christmas, una pietra miliare del cinema di genere anche per la sua ambientazione temporale (Natale, appunto), è il classico horror a stelle e strisce degli anni 2000, con litri di sangue, morti spettacolari, una pioggia di stereotipi e un cast di "giovani vittime", tutte bellocce (la ragazzina "bruttina" del gruppo è interpretata da un'attrice imbruttita da una pettinatura demodé e dagli occhialoni). Viste le banalità della pellicola, in casi come questi c'è davvero da tifare per la cultura Woke: ben venga l'eliminazione di film di questo tenore...
Tralasciamo i difetti della sceneggiatura, che in film come questi non è certamente ciò su cui si punta. Ma dimenticatevi il minimo concetto di paura o terrore. Spaventarsi con un film del genere è impossibile. E nel 2023 fa certamente impressione pensare che film degli anni '70 riescano a trasmettere inquietudine e paura, mentre un film degli anni 2000 può fare ridere o sbadigliare, a seconda dei punti di vista.
A proposito di cinema anni '70: l'originale Black Christmas (qui la recensione dell'amico Bonigol) non aveva bisogno di pigiare il piede sul pedale dell'acceleratore dello splatter, puntando sulle atmosfere, sul senso di angoscia trasmesso da una casa addobbata lussuosamente in vista del Natale, ma che diventa una prigione "dorata" in cui si rischia di morire per mano sconosciuta.
Soprattutto aveva lasciato alla fantasia dello spettatore degli interrogativi, che invece, ahimè, questo film del 2006 cerca di risolvere.
E qui, tra uno "spiegone" e l'altro, si generano i buchi di sceneggiatura: in primis, l'immotivata presenza di una famiglia non particolarmente benestante (e formata da tre-quattro persone) in una casa modello albergo (che infatti diventa un dormitorio per studentesse). Troppa carne al fuoco (addirittura due serial killer che fanno solamente confusione), nel tentativo di creare dei cattivi di impatto, tra rapporti incestuosi, pelle gialla, occhi di vetro. La recitazione è pessima (c'è anche una giovane Katie Cassidy, vista poi nella serie tv Arrow), con la solita schiera di attrici belle, patinate, da fotoromanzo, ma che trasmettono scarsissima empatia.
Rispetto al 1974 non c'è nessuna investigazione, non c'è il John Saxon di turno che prova a far luce sugli eventi. C'è solo una carneficina, fine, come in Final Destination, come in uno slasher da cestoni del centro commerciale.
Il difetto peggiore è il finale, ambientato in ospedale: perché togliere al film la specificità del suo elemento chiave, cioè lo svolgimento totale in un collegio addobbato a festa per il Natale? Semplice, perché il cinema horror americano degli anni 2000 doveva per forza avere il colpo di scena. Finale troncato di netto, poi, dopo una morte piuttosto "discutibile".
Da salvare, nella versione 2006 di Black Christmas, c'è poco: qualche scena che mostra una bella cura dei dettagli, in primis la scena della doccia di Crystal Lowe: no, non pensate male. Non per il pur meritevole fondoschiena dell'attrice, ma per l'occhio "scrutatore" che sbuca fuori dal buco del pavimento, una scena molto "argentiana" (benché assolutamente irrealistica).
Nel complesso è un film che in una seconda visione annoia e addirittura infastidisce (con tutti gli "spiegoni"), "Un minestrone ricco di ingredienti senza sapore", rubando le parole all'amico Bonigol, nello scambio di messaggi che ci siamo scambiati dopo la visione del film.
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