Ho scritto due diverse recensioni di "Berlinguer ti voglio bene", in due distinti momenti, e di entrambe sul web non c'è più traccia.
È inevitabile tornare a scrivere di questo film, diretto da Giuseppe Bertolucci, così significativo per il cinema di casa nostra: arriva infatti nel 1977, quando oramai la grande commedia all'italiana è al tramonto. Mario Cioni, interpretato da Roberto Benigni, qui all'esordio cinematografico, è il protagonista di questa storia che tratta temi molto significativi, filtrati attraverso le voci e i pensieri di chi abitava la provincia toscana. Contadini e sottoproletari, che più della miseria materiale, dovrebbero preoccuparsi della propria povertà culturale, che spinge loro a raccontare fiabe ai figli bambini su "uomini senza il cazzo che lasciano pisciate enormi", o a combinare matrimoni, svilendo i sentimenti dei propri figli, solamente perché interessati alla casa e al terreno di proprietà.
Il linguaggio sboccato della pellicola riflette perfettamente i suoi protagonisti e coprotagonisti. Il sesso è "animalesco" e istintivo, basti pensare alla nostalgia, provata dalla madre del protagonista, per il sesso orale praticato al marito, al termine del pranzo.
Ma Berlinguer ti voglio bene, film divertente e irriverente, trasforma questo triviale in una forma d'arte, grazie anche alla straordinaria mimica di Roberto Benigni. C'è tanto politicamente scorretto, dalle intemperanze verbali di Cioni in merito all'omosessualità, vista come un disvalore, alle acrobazie (scena slapstick estremamente realistica e ancor più divertente per la scelta di velocizzarla) fatte per umiliare quella ragazza che sarebbe dovuta diventare sua moglie, nelle intenzioni del padre di lei e della madre del protagonista. Ma il triviale, inoltre, non è fine a se stesso ed è per questo che assume una connotazione artistica.
Perché Cioni e la sua banda è un microcosmo che racconta perfettamente quella che era la condizione dei giovani sottoproletari dell'epoca. Non c'è nulla di caricaturale nei discorsi di esaltazione della "fica" e i quattro protagonisti non sono inutili macchiette, ma giovani rassegnati a non trovare posto nel mondo, che passano il tempo libero inseguendo avventure amorose fallimentari, pagando per il sesso quando è possibile, altrimenti ripiegano sul cinema a luci rosse per poi masturbarsi a casa. Giovani consapevoli che la loro vita sia attesa di una domenica in cui poter fare sesso, dopo 6 giorni di "seghe", ma con la certezza che si rimarrà a secco, però tanto "domani è lunedì e mi potrò tirare una sega". Una metafora profonda, al di là dell'immagine boccaccesca, perché per tanti la vita è un ripetersi di situazioni nell'attesa di un qualcosa che non arriva e l'unica consolazione è accontentarsi del poco.
Il passaggio esprime una grande tristezza di fondo, la stessa di Cioni, che alla falsa notizia della morte della madre, prima dà sfogo a un turpiloquio in cui emerge il suo desiderio edipico, ma poi dice "sono il figlio vivo di una mamma morta", frase estremamente toccante e straziante. Non è un caso che Cioni abbia un fugace momento di felicità pensando di essere comunque fortunato ad avere "una mamma, gli amici e una casa", prima di ripiombare nella disperazione alla prospettiva di una convivenza ingombrante con Bozzone, nuovo compagno della madre.
Berlinguer ti voglio bene, lo avrete ben capito, non è un film "pecoreccio", è una pellicola terribilmente nichilista.
Anche nella ricerca di sesso a pagamento - la prestazione viene però contrattata perché lo stipendio non consente troppi voli pindarici - i protagonisti cercano un rimedio a un grosso male che li attanaglia, cioè la solitudine. "Ero qui anche per fare due chiacchiere", confessa candidamente Cioni alla prostituta impegnata a fargli del sesso orale.
Certamente nel descrivere Mario Cioni e i suoi amici viene in mente un celebre verso di Fabrizio De André: "Se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo". Essi sono vittime del sistema, di quella società che li emargina, un'emarginazione rappresentata alla perfezione dalle parole in versi di Bozzone (il grande Carlo Monni), il punto più alto del film:
Noi semo quella razza che non sta troppo bene,
che 'l giorno sarta fossi e la sera le cene.
Lo posso gridà forte, fino a diventà fioco:
noi semo quella razza che tromba tanto poco.
Noi semo quella razza che al cinema s'intasa
per veder donne ignude e farsi seghe a casa.
Eppur la natura ci insegna, sia su monti sia a valle,
che si può nascer bruchi e diventar farfalle.
Ecco noi siamo quella razza che l'è tra le più strane,
che bruchi siamo nati e bruchi si rimane.
Quella razza siamo noi, l'è inutile far finta,
ci ha trombato la miseria e siamo rimasti incinta.
Ma non sono vittime incolpevoli. Spesso, infatti, sfogano le loro frustrazioni sul più debole, talvolta anche uno contro l'altro. Un debole che, a scanso di equivoci va sottolineato, non è però senza macchia: la ragazza zoppa, aspirante moglie del Cioni, esprime tutta la sua grettezza nel dialogo con il padre, che fiuta l'affare: "Son già morti il padre e la figlia, presto toccherà alla madre. E a lui, che non ha mai visto una fica, basterà farlo trombare che morirà anche lui e prenderemo casa e terreno".
In questa "guerra tra poveri", anche Dio ha un ruolo: bestemmiarlo diventa un'ancora di salvezza, perché quanto meno si scaricano le colpe a qualcuno o a qualcosa: se non ci fosse un Dio da cui dipendono fortune e sfortune, Cioni lo dice chiaramente, sarebbe un problema, perché della loro miseria e delle loro sfortune ne sarebbero completamente responsabili. Cioni non ha avuto un destino facile: ha perso il padre per malattia e la sorellina di 4 anni. Nello struggente monologo sotto il ponte, si rivolge a un Dio assente di fronte a morti inspiegabili come quella di un bambina: perfetta l'immagine dell'inverno, del freddo e del gelo a sancire la distanza tra il trascendente e infinito, Dio, e la sua creatura, l'uomo, finito e imperfetto, così inerme di fronte al dolore del lutto, così fragile di fronte alla morte.
La stessa madre di Cioni, interpretata da una straordinaria Alida Valli, ha subito lo shock della perdita del marito e della figlia. Il rapporto tra madre e figlio ha chiari connotati edipici, frutto di una situazione di disagio e di shock a causa dei lutti. Lei lo soffoca con la sua presenza, ma spesso lo maltratta. Lui davanti agli amici finge e ostenta un certo disprezzo verso la figura materna, tuttavia, 25enne non ancora del tutto uomo, conserva fragilità e necessità del bambino. La sua principale colpa è quella sostanzialmente di non riuscire a crescere.
Una via di salvezza è costituita dalle due ragazze dirette alla casa del popolo per il dibattito sull'eguaglianza tra uomo e donna, altro spaccato di una società maschilista e retrograda, messa alla berlina nel modo più efficace, senza caricature, ma semplicemente attraverso le parole degli intervenuti nella discussione. Cioni ottiene un passaggio dalle due; e la ragazza seduta sul lato passeggero sembra interessata a quel giovane, così timido e un po' impacciato. Lei gli scrive il numero di telefono sulla mano, quel numero che, però, viene cancellato dalla saliva di Bozzone nell'intensa scena finale: "Sei sporco".
E un colpo di vento improvviso chiude porte e finestre della casa di Cioni, perché il suo destino è quello: essendo Cioni un "inetto", dovrà rimanere "imprigionato" in quella casa e in quel rapporto materno, così soffocante, a cui si aggiunge una nuova figura paterna, proprio quel Bozzone che è l'unico ad avere un'evoluzione significativa: la sua solitudine si è unita a quella della madre di Cioni, "due miserie in un corpo solo", citando Gaber.
L'unica speranza, anzi l'unica aspirazione, è quella di diventare un borghese medio. D'altra parte Cioni osserva una famiglia intenta a fare un picnic: "trombano, cacano, mangiano, cacano…questa l’è vita”. È la vita del borghese medio che in realtà genera tutte quelle nevrosi così descritte alla perfezione da Gaber nel suo teatro canzone. Una vita ripetitiva e ciclica, migliore probabilmente, ma non così lontana da quella di Cioni e dei suoi amici, dai sei giorni passati a lavorare e a tirarsi seghe nell'attesa (invano) di scopare la domenica.
L'aspirazione del sottoproletariato è diventare un borghese, o perlomeno scimmiottare un borghese con i suoi riti: ogni domenica le paste, il vestito buono e la Messa. Proprio come fa Bozzone, che prima negava l'esistenza di Dio e che poi diventa il feticcio a cui aggrapparsi per dare un senso a una vita piena di stenti e di sofferenze. Ed è questo il senso dell'inutile contrapposizione che il popolo fa tra Chiesa e Comunismo: una Religione e un credo politico, che vengono però banalizzati (Basta appunto confrontare le due idee di Dio che ha Bozzone prima e dopo "la conversione"). Il comunismo, per Cioni e i suoi amici, è la speranza di una rivoluzione che non si sa neppure cosa sia, nei dettagli, Ma tanto - evidenzia il personaggio interpretato da Benigni - è come l'arrivo della pubertà: prima non sai, poi sai e godi.
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