di Bonigol
Le amiche, diretto da Michelangelo Antonioni, è un film che, pur essendo tra le sue opere meno celebrate rispetto alla successiva trilogia dell'incomunicabilità, rappresenta un tassello fondamentale nella sua evoluzione artistica e un lucido affresco dell'insoddisfazione borghese nell'Italia del dopoguerra.
Basato (in maniera moderatamente libera) sul romanzo "Tra donne sole" di Cesare Pavese, il film ci proietta nei "salotti" di una Torino in rapida ascesa, dove si dipanano le vicende di un gruppo di donne e dei loro complessi rapporti interpersonali.
Il film si apre con il ritorno a Torino di Clelia (Eleonora Rossi Drago), donna in carriera che ha lasciato la sua città natale per un impiego a Roma. La sua professionalità e l'apparente autonomia la distinguono subito dalle "amiche" che incontra: la frivola e superficiale Mariella (Valentina Cortese), la sensibile e tormentata Rosetta (Madeleine Fischer), la cinica e disillusa Momina (Yvonne Furneaux), e la più pragmatica Nene (Anna Maria Pancani). Intorno a loro orbitano figure maschili incapaci di offrire stabilità, reale, comprensione o empatia.
Strutturato su un intreccio di dialoghi e riflessioni di un livello notevolmente avanzato per il cinema del tempo (il film è del 1955, il libro addirittura del 1949), il cuore di Le Amiche, risiede nella profonda solitudine e nell'incapacita di aprirsi al dialogo che affliggono i personaggi.
Non mancano i tentativi di stabilire legami, ma le amicizie appaiono fragili, "alimentate" più da convenienze sociali e distrazioni che da autentico affetto. Ognuna delle amiche, a suo modo, cerca un senso alla propria esistenza, ma si scontra con una stagnante frustrazione che sfocia spesso in apatia.
Antonioni è magistrale nel mostrare questa crisi esistenziale attraverso sguardi, silenzi e l'uso dello spazio racchiuso in un malinconico bianco e nero. I dialoghi, spesso apparentemente banali, celano un'ansia e un vuoto che i personaggi non riescono o non vogliono affrontare. La borghesia che il regista (e prima ancora di lui il testo di Pavese) dipinge non è afflitta da problemi materiali, ma da una profonda carenza di valori e di direzione. Il regista troneggia nella capacità di cogliere le sfumature psicologiche dei personaggi (attraverso l'ambiente che li circonda) e farcele arrivare. Tutto ci suggerisce che la modernità e il progresso, senza una corrispondente evoluzione interiore, possono portare a un mortificante estraniamento. La ricchezza e l'agio non portano felicità, ma piuttosto un senso di alienazione e inutilità. Non è cinema d'intrattenimento ma cultura e riflessione.
Clelia, piomba da fuori in un ambiente tossico e con la sua visione "esterna", rappresenta forse l'unica possibilità di fuga da questo limbo, la volontà di riaffermare quell'autonomia che le altre amiche sembrano aver smarrito.
Il suo rifiuto di conformarsi a un contesto che la soffoca è lo schiaffo più puro alle convenzioni di facciata di una vita che, se pur agiata, minaccia di farti sprofondare.
Quest'opera di Antonioni può rivelarsi una piacevole (ri)scoperta per chi, come me, ama quelle trame che vanno a sondare gli abissi dell'essere umano senza necessitare di situazioni estreme o sopra le righe ma raccontando quanto più ci sia di reale e antropologico in temi eternamente attuali.
Voto: 8
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