di Bonigol
Nella sua modestia, Le Città di Pianura, di Francesco Sossai, è molto più di un semplice film "on the road"; è un viaggio esistenziale, privo di regole e profondamente malinconico, che si snoda attraverso la geografia e l'anima del Veneto. Il regista di Feltre firma un'opera che riesce a essere al contempo un omaggio sincero alla grande commedia all'italiana del passato e un ritratto lucidissimo e spietato della provincia contemporanea.
Sullo schermo sfilano le avventure di due antieroi cinquantenni: Carlo Bianchi (interpretato da Sergio Romano) e Doriano (un Pierpaolo Capovilla, dai tratti vagamente "faberiani", sorprendente e iconico). Sono due anime senza pace, ancorate ai ricordi di un passato ancora vivido, la cui unica vera missione è l'ossessiva e incessante ricerca dell'ultimo bicchiere (della serata? della loro vita?), ossia quel brindisi conclusivo che non arriva mai, destinato a "cronicizzare" l'ebbrezza e a ritardare l'arrivo di una realtà in cui le loro vite sembrano aver perso ogni senso e direzione.
Il loro percorso etilico li porta a imbattersi in Giulio (il Filippo Scotti ammirato ne L'Orto Americano di Pupi Avati), un timido e disorientato studente di architettura. Il ragazzo, resta "imbrigliato" sotto l'ala sconsiderata dei due cosicché la "strana coppia" assorbe questa improbabile amicizia intergenerazionale. La ricerca di un ultimo bicchiere si tramuta così in una caccia all'indefinito della vita, in centri e periferie della pianura veneta, dove dietro ogni sbronza si nascondono un disincanto bruciante e una testarda, sventata, modalità "zingara" alla Amici Miei.
L'ambientazione è un'autentica co-protagonista. Sossai non si limita a usare il Veneto come sfondo, ma lo trasforma in un elemento narrativo centrale: una terra di centri commerciali indistinti dietro i quali fanno capolino (maestose) le Dolomiti, fra traffico pesante, capannoni e insegne al neon fino ai pittoreschi lungomare veneziani. Una geografia quasi "agorafobica", vuota, spaziosa, che minaccia di riempirsi ed è metafora della crisi d'identità dei protagonisti. La fotografia e la colonna sonora (curata dal musicista Krano) si fondono, inoltre, per creare un'atmosfera onirica che esalta la "leggerezza" delle melodie in contrasto con la "pesantezza" della realtà. Eppure, in questa desolazione post-industriale, il regista trova una sua inattesa poetica, strizzando l'occhio a dramma e commedia in egual misura e blandendole con una sua carezza amara.
Veniamo alla forza emotiva ed evocativa del film che poggia interamente sulle spalle dei tre attori. I due trasandati e sbandati viveur, con le loro facce "non da cinema" e una buona credibilità caricaturale, offrono un ritratto potentissimo di una generazione alla deriva. Sono buffi e patetici, insopportabili e irresistibili al tempo stesso.
Le loro chiacchiere sfilacciate e le loro filosofie da bar strappano più di un sorriso in un film che sembra voler celebrare l'amicizia in quanto ultima vera forma di resistenza.
Filippo Scotti, nei panni di Giulio, è la perfetta spalla, la "tela bianca" su cui i due cinquantenni proiettano fallimenti e nostalgie, un "grillo parlante" arrendevole che si presta a tutto, pur mettendoli in guardia dalle conseguenze. Impossibile non pensare alle analogie con Il Sorpasso, di Dino Risi, quando Roberto "formica lavoratrice" (un grande Jean-Louis Trintignant) si lascia travolgere dall'esuberanza della "cicala" Bruno (Gassman). È attraverso le remore di Giulio che impariamo ad apprezzare la goffaggine di Carlo e Doriano.
Le Città di Pianura mi è piaciuto molto. Un'opera coraggiosa, imperfetta nel suo andamento, contraddittoria ma degna di essere "vissuta". Non saprei dire quanto possa aver inciso la mia passione per i film "dinamici" o per quello che i critici blasonati chiamano "cinema degli sconfitti" ma è stato bello viaggiare per un paio d'ore accanto a Carlo, Doriano, Giulio e tutti gli altri personaggi della storia.

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