Regalo di Natale: l'analisi del film cult di Pupi Avati (SPOILER)


"Regalo di Natale" (1986), del regista Pupi Avati, è una delle pietre miliari del cinema italiano. Diffidate da qualche critico che lo definisce addirittura tra i film più brutti del cineasta bolognese. É una pellicola girata con grande mestiere, per quasi tutta la sua durata ambientata nella villa dove gli amici di gioventù Franco (Diego Abantantuono), Lele (Alessandro Haber), Stefano (George Eastman) e Ugo (Gianni Cavina) si ritrovano per sfidare l'avvocato Santelia (Carlo Delle Piane) in una partita a poker, nella notte di Natale.  Dopo una corposa introduzione di tutti i personaggi, si entra nel vivo, nelle pieghe di una partita che oscilla tra il regolamento di conti e il tentativo di riavvicinamento. Progressivamente si respirano tutta l'ansia e l'inquietudine che aleggiano attorno al tavolo di poker, fino al duplice colpo di scena finale: come nella tradizione del thriller all'italiana, di cui Pupi Avati è stato maestro con poche, ma azzeccatissime pellicole.




"Regalo di Natale" è un film drammatico che mette a nudo il provincialismo di chi vive nella grande città (Bologna, nella fattispecie) e che svela le contraddizioni della società degli anni '80, una società piegata al consumismo che viveva un benessere e una felicità solamente apparenti.  E in merito è molto significativo il personaggio di Ugo, televenditore che sembra uscire dai versi di "Felicità", splendida canzone di un altro grande artista bolognese, Lucio Dalla: "Forse per questi i sogni sono così pallidi e bianchi - E rimbalzano stanchi tra le antenne lesse delle varie tv - E ci ritornano in casa portati da signori eleganti". Televendite e pubblicità che inondano le case degli italiani, diffondendo l'indispensabilità del superfluo, dando un'idea sbagliata della felicità. E quei signori eleganti come Ugo sono grandi infelici: il personaggio interpretato da Gianni Cavina ha un divorzio e quattro figli alle spalle, ha tradito l'amico Franco in gioventù, portandogli via la moglie, ma soprattutto lo tradisce in quella che doveva essere la sera della riappacificazione. Ma se il primo tradimento può essere paradossalmente giustificabile, perché Ugo è spinto dall'amore e dalla passione (e la moglie di Franco, Martina, spinta al tradimento dal fatto di essere trascurata dal marito), il secondo è frutto esclusivamente del decadimento morale dell'uomo, piegato alle logiche del denaro. Il secondo e ultimo colpo di scena è infatti il suo tradimento, il patto stipulato con l'avvocato Santelia all'insaputa dei suoi amici di infanzia. Ugo non è mai stato un grande giocatore di poker, tuttavia come un giocatore di poker ha bleffato e consumato il suo piano. Ha tradito non solo Franco, ma anche gli amici, promettendo di portare al tavolo da poker un pollo da spennare (l'avvocato Santelia), che invece si dimostra un abilissimo giocatore e un baro. 



Ugo rinuncia dunque a trascorrere una serata di Natale serena, con quella che resta, nonostante il divorzio, la sua famiglia, desiderosa di averlo con sé in queste ore di festa. E lo fa per giocare a poker. Così gli altri protagonisti della vicenda: il Natale è un elemento di sfondo quasi impercettibile. Il titolo è un riferimento al primo dei due colpi di scena: l'avvocato Santelia infatti parla di "Regalo di Natale" quando, di fronte all'oramai sconfitto Franco, è pronto ad abbuonargli ogni perdita, purché quest'ultimo rinunci a vedere le carte del proprio avversario. Il grande bluff finale dell'avvocato, goffo giocatore per gran parte della serata, prima del ribaltamento conclusivo: con la vittoria in mano, finge di non essere uno spietato e cinico giocatore, per indurre il suo avversario a fare il contrario di quello che la logica spingerebbe a fare: abbandonare il tavolo da gioco. E infatti Franco rimane, sciaguratamente, in partita. Tuttavia il protagonista principale di "Regalo di Natale" (straordinaria l'interpretazione di Diego Abatantuono), è un perdente a prescindere dall'esito della partita, perché ha rovinato la sua vita e soprattutto la sua relazione con Martina, la prima moglie, la donna che più ha amato, per inseguire il suo vizio del gioco. Lo spettatore, nel duello tra Franco e l'avvocato Santelia, che nei suoi modi sembra un alieno, tifa inevitabilmente per il primo, nonostante questi non sia affatto un personaggio positivo, tutt'altro. Il regalo di Natale è però anche un'incredibile coincidenza che il destino riserva a Franco: la mattina successiva alla partita a poker, l'uomo incrocia in hotel proprio Martina, ma il vizio del gioco lo ha reso così apatico da impedirgli di riconoscere la donna. I protagonisti di "Regalo di Natale" sono degli sconfitti perché non riescono a porre rimedio ai propri errori, a riconoscere i propri limiti, a cercare di cambiare in meglio, crogiolandosi nel rimpianto. Franco avrebbe avuto la possibilità di cambiare il proprio destino: seguendo la logica e rinunciando a quell'ultima mano di poker. Non avrebbe perso tutto e in hotel avrebbe potuto incontrare l'ex moglie, riferendole una volta per tutte i suoi sentimenti. Certo una scelta non indolore, perché questo avrebbe praticamente messo fine al secondo matrimonio, che però tutto sommato lo rende infelice: altrimenti non sceglierebbe di trovare una scusa con la moglie per tornare al tavolo di poker con gli amici di gioventù. Ma evidentemente Franco è incapace a godersi la famiglia, a riconoscerne il valore, inseguendo i suoi demoni, in primis il demone del gioco. 



Passiamo agli altri giocatori. Stefano, personaggio solo all'apparenza di contorno, è l'amante di una ricca signora, la donna che gli concede la propria villa per giocare la partita a poker, e nel contempo vive una relazione omosessuale con un giovane che frequenta la sua palestra. L'amante donna è solo "una copertura" e ciò rivela tutto il provincialismo della grande città: un omosessuale che nasconde la propria natura. Anche lui ignora quindi lo spirito del Natale per dedicarsi alla partita a poker. Lele è probabilmente "lo sfigato" del gruppo, ma anche quello con più umanità. La prima "sfuriata" verso Franco è ovviamente una mossa fatta a tavolino, un trucco per confondere l'avversario principale (Santelia), la seconda è invece genuina ed è un disperato tentativo di evitare la rovina dell'amico. Lele è il più fallito di tutti, ha un lavoro modesto, una cotta per una bella, ma poco promettente attrice, tuttavia è il più genuino, non a caso è l'unico dei tre amici a non rendersi conto del tradimento di Ugo. Il Natale dunque resta sullo sfondo, simboleggiato da un triste albero in giardino, che ogni tanto viene incrociato dallo sguardo dei protagonisti, un albero dei rimpianti, simbolo di una nostalgia per sprazzi di felicità vissuta in passato e destinata a non tornare più. Ma nessun destino avverso: i protagonisti si sono condannati da soli, con le proprie scelte.




La pellicola di Pupi Avati, malinconica, cinica, amara e disincantata, non condanna, ma allo stesso tempo non assolve nessuno. Anche le figure di contorno sono espressione di una società senza valori: la stessa Martina, vittima del comportamento di Franco, ricade nelle grinfie di un marito distratto dalla sua passione (il golf), ma questa volta si concede al tradimento senza grandi esitazioni. L'avvocato Santelia la incrocia al ristorante della stazione e le chiede se sia una prostituta: la sua reazione è composta, paradossalmente segno di una sorta di ammissione di colpa. Veniamo appunto al personaggio di Santelia, interpretato da uno straordinario Dalle Piane. L'avvocato non viene percepito come un cattivo, non solo perché pensiamo che possa essere la "vittima" designata della partita a poker (in fondo dovrebbe essere solo contro quattro...), ma proprio per il modo in cui si presenta (e qui entra in gioco la grande interpretazione di Dalle Piane), in primis per i suoi modi di fare e per le sue manie (il mangiare patate bollite e scondite). Tuttavia c'è un grande campanello d'allarme che dovrebbe suonare, all'orecchio dello spettatore. La negatività del suo personaggio è infatti espressa, prima del colpo di scena finale che ne mette in evidenza cinismo e spietatezza, dalla sua concezione della donna: strumento di piacere sessuale o puro ornamento. Con le donne infatti Santelia non si siederebbe mai al tavolo del poker, ma nelle pause del gioco le vorrebbe avere come compagnia, come ornamento appunto.  L'avvocato è una persona gretta e misogina e qui leggiamo una salace (benché tutto sommato non così evidenziata) critica all'imprenditoria italiana, fatta di personaggi moralmente discutibili che hanno però raggiunto il benessere e il successo economico.


Commenti

  1. Un film crudo dove non si salva niente e nessuno, se non Avati con la maestria che gli riconosciamo. Unico difetto questo grigio uniforme che pervade tutti, alla fine, e sommerge ogni ipotetica speranza di riscatto o resurrezione. Siamo fatti male, il messaggio principale, nessuno escluso.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non si salva niente e nessuno, o meglio si salvano tutti: proprio perché siamo fatti male, come uomini. Anche se, diversamente dai protagonisti, possiamo comunque trovare "riscatto"

      Elimina
  2. Riky, non ho visto il film, ma ho studiato filosofia. Avati, ho l'impressione che abbia attinto a piene mani dal pensiero di Arthur Schopenhauer.
    La filosofia di Schopenhauer è identificabile con il pessimismo cosmico, secondo il quale la volontà è caratterizzata dal desiderio, che coincide con la mancanza dell'oggetto desiderato, e perciò il dolore, e siccome l'uomo desidera di più degli altri esseri viventi, soffre più di loro.
    Secondo Schopenhauer riconoscere che la vera essenza della realtà è la volontà, equivale a dire che la vita è dolore, è sofferenza perenne. Volere significa infatti desiderare ed il desiderio è mancanza di qualcosa, vuoto, dolore. Il piacere rappresenta solo una momentanea cessazione del dolore, il quale sopraggiunge nuovamente non appena è temporaneamente appagato. Scrive Schopenhauer: «Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole (…) bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento».
    Tra il dolore e il piacere si colloca la noia, che è la situazione in cui viene a trovarsi l’uomo nel momento in cui placa temporaneamente i suoi desideri. Il filosofo polacco ci concede piccoli intervalli di gioia, ma si pente subito affermando che si tratta di una sensazione illusoria.
    Il pessimismo di Schopenhauer è cosmico, universale ed interessa ogni creatura. L’uomo avverte maggiormente il dolore in quanto è soltanto più consapevole e dunque più ricettivo nei confronti dei propri desideri e dei dolori conseguenti.
    La sofferenza universale è concretizzata nella lotta di tutte le cose (l’autoconservazione di un essere è garantita a patto di “passare sul cadavere” di un altro)
    l’unico fine della natura sembra essere quello di continuare a perpetuare la vita e, dunque, il dolore. L’amore come strumento per la riproduzione: L’individuo non è altro, infatti, che uno “strumento” al servizio della specie. Ciò è particolarmente evidente nel fine dell’amore che per S. non è il piacere o la felicità dell’uomo, bensì l’accoppiamento e la riproduzione. Non esiste amore senza sessualità. Scrive infatti Schopenhauer: «Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale. (…) Se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito.»
    La demistificazione della realtà. L’uomo cerca di celare a sé stesso la sofferenza insita nella propria vita attraverso alcune “bugie”: all’idea di un Dio o Ragione che governa il mondo rendendolo il regno della logica e dell’armonia (Hegel), Schopenhauer contrappone una visione atea e profondamente irrazionale della vita. Anche la storia, lungi dall’essere caratterizzata da continuo progresso, è solo ripetizione di una sofferenza immutabile.
    Alla tesi della insita bontà e socievolezza dell’individuo contrappone la visione della natura maligna, egoista e aggressiva dell’essere umano. Lo Stato e le sue leggi esistono unicamente come risposta al bisogno dell’uomo di difendersi e non come apice dell’etica (Hegel).
    Il velo di Maya, dal dolore alla liberazione: le tappe.
    La risposta al dolore del mondo non può, secondo Schopenhauer, consistere nel suicidio: anziché essere una liberazione dalla volontà di vivere ne costituirebbe, infatti, la sua più forte affermazione. Il suicida non nega la vita ma è soltanto “malcontento delle condizioni che gli sono toccate”.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie Gus per questa tua splendida riflessione. Schopenhauer, ai tempi della scuola, fu per me il filosofo piu' interessante. Anche perché rimasi affascinato dalla sua teoria del desiderio. L'uomo infatti vive in uno stato di costante inseguimento dei propri desideri, creando desideri sempre più grossi e inesaudibili, senza accontentarsi di ciò che ha. É un continuo affannarsi, quindi.
      Effettivamente "Regalo di Natale" è un film pessimista. L'amore non c'è, è "accoppiameno e riproduzione" e anche una necessità di rispondere a una convenzione sociale, quella di dover fare coppia.
      Veniamo al regista. In un'intervista ha scritto:

      "Sono convinto che nella vita ci siano tante ingiustizie per le quali nessun tribunale, nessuna organizzazione politica e sociale, possa ristabilire i giusti equilibri e dare loro il dovuto risarcimento. Ho 80 anni e ho visto persone nascere e morire nella sofferenza. Davanti a questa triste e ingiusta realtà, un Dio deve esistere, è indispensabile e ciò per dare un senso alla vita di queste persone. Per questo voglio credere in un Dio!"

      Pupi Avati non credo in Dio, vuole credere in un Dio.
      Riconosce la troppa ingiustizia e sofferenza presenza nella vita.

      Elimina
    2. Ho l'impressione che Avati abbia capito tutto. La presenza di un'altra vita dopo la morte crea un senso di distacco dal desiderio non appagato e una sofferenza che non è più bestiale, come ha scritto Pavese, ma una strada, percorsa già di Cristo, che porta a qualcosa di straordinario, che non possiamo definire, dovuto dalla vicinanza a Dio.

      Elimina
    3. Esatto, la vita ultraterrena compensa il patimento vissuto in terra. Conosci queste parole meglio di me: "Beati gli ultimi, perché saranno i primi".

      Elimina
  3. Solo un attore mi sta più antipatico di Abatantuono del presente.
    Ed è Abatantuono in quegli anni lì.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. ahha, mi hai stroncato il Diego :D. Sinceramente l'Abatantuono "maturo" è un po' troppo strabordante (ricordo certe sue ospitate in programmi tv)

      Elimina
  4. Onestamente non ho mai visto questo film e non so perché vedevo leggendo un certo collegamento con Magnolia.
    Dal 1986 ad oggi cosa è cambiato,come siamo cambiati noi ,magari qualche segno dal cielo è anche arrivato ...ma siamo troppo presi da altro e magari nemmeno interessati alla nostra proiezione di vita reale che il film ben riporta,
    smascherando i nostri vizi,la realtà di un epoca così controversa dove magari il regista diventa ancora più spietato scegliendo forse un giorno non a caso come il Natale.Sembra tutto un "inganno" in realtà, dove ogni valore va in pezzi, dalla famiglia all'amicizia...e il tavolo da gioco è la metafora di un qualcosa che attira tutti qui e vien fatto a cuor leggero senza invece capire che si è entrati in un ingranaggio molto più grande,dal momento in cui ci si illude che il denaro possa dare una buona svolta alla propria vita inconsapevoli invece di abbracciare solo la nuova cultura capitalista.

    Bello anche il tuo collegamento a Lucio Dalla...tutto torna :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Concedimi un altro sorriso: le connessioni a volte si creano anche involontariamente. Perché qualche settimana fa su un social mi sono definito, in una metafora, "il peggior giocatore di carte della storia", paragonando la vita a un tavolo da poker, che in fondo è la metafora - non citata da me nella recensione perché era ovviamente un aspetto palese - anche di questo film. Il peggior giocatore di carte della storia che però sa sorprendere con grandi giocate, spesso inaspettate, o con giocate semplici, ma che altri giocatori banalizzano. Quindi il peggior giocatore di carte della storia, diventa il piu' grande peggior giocatore di carte della storia. E forse il messaggio è un piccolo regalo di Natale: al tavolo della società capitalistica non possiamo alzarci, dobbiamo sederci e giocare. Ma nulla toglie che si possano fare giocate meravigliose, quando la nostra mente e il braccio si fanno guidare...dall'amore.

      Elimina
    2. Praticamente una persona può essere incoerente anche consapevolmente sedendosi ad un tavolo da poker con la giocata coerente all'amore :)

      Elimina
    3. Bellissima questa tua frase: quando sarò morto si dovrà scrivere un libro di aforismi oramai, che mi rappresentano, e questo merita di entrare: "Qui giace chi giocava incoerentemente a un tavolo di poker con la giocata coerente all'amore"

      Elimina
  5. Bellissima analisi. Un film che ad ogni visione o rilettura comunica qualcosa di nuovo. Sono tutti stati d'animo, sentimenti e atteggiamenti che s'incontrano nella vita. Avati è bravissimo a trasporre la decadenza morale delle persone. Apoteosi dell'uomo biasimevole in un film meraviglioso e immortale.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie amico mio. Condivido il tuo giudizio: è l' apoteosi dell'uomo biasimevole in un film, aggiungo, malinconicamente poetico e decadente

      Elimina

Posta un commento